Mestruazioni e Generazioni
Claudia Bruno
“Non mettere in vagina quel che non metteresti in bocca”.
Incontrare oggi le donne del self-help
“Non mettere in vagina quel che non metteresti in bocca”,
ci hanno detto Livia e le altre sorridendo con la ‘bocca di sopra’ la prima
volta che ci siamo incontrate, lasciando me e le mie compagne letteralmente
spiazzate. “L’apertura dell’utero può assumere la forma di una lineetta, di un
cerchietto, di un puntino”, “osservato al microscopio il muco dell’ovulazione
cristallizza a felce, come la neve”, “i colori, gli odori, le consistenze
cambiano”, “per curarci infezioni e piaghette usavamo yogurt, miele, erbe” ci
hanno raccontato le donne del self-help romano, come per svelarci una favola
antichissima.
Non è che eravamo spiazzate per pudore, voglio dire,
erano mesi che parlavamo di ‘sessualità’. È che proprio non ne sapevamo niente.
Ci eravamo perse qualcosa? Sì, qualcosa che ci riguarda eccome, che è già qui tra
noi, proprio adesso, e che avevamo completamente dimenticato. Tutto ciò, era
drammaticamente divertente.
Il self-help? Prima di incontrare Livia ed altre che
hanno fatto parte del movimento per la salute delle donne negli anni Settanta
ne avevo sentito parlare solo sui libri all’interno del mio percorso di
ricerca. Ma è stato quando ho potuto ascoltarne testimonianza diretta che mi è
apparso ben più evidente come il meccanismo della delega all’autorità medica
non sia ancora stato messo davvero in discussione all’interno della nostra
cultura della corporeità, una cultura tutt’ora altamente tecnicistica
che tende a separare e dividere – corpo e mente, parti del corpo da altre parti
del corpo, paziente da medico, dolore da piacere, prevenzione da cura, casa da
ospedale, vita da morte, benessere da malattia, saperi autorevoli da tradizioni
popolari, ‘bocche di sotto’ e ‘bocche di sopra’.
Leggo
dalle testimonianze del gruppo romano:
“ricordo freddo,
emozione, vergogna… Abbiamo dimenticato tutto appena abbiamo intravisto le
nostre bocche dei coli dell’utero, una differente dall’altra, che sembravano
sorridere”
“chi visitava e
chi osservava era la stessa persona”
“con il self-help ci
siamo riappropriate della bellezza del nostro corpo”
“l’avere corpo e mente
uniti è stata un’esperienza che ha caratterizzato i gruppi di sh rispetto agli
altri gruppi”
L’autosservazione dal vivo come smascheramento e
rottura della delega all’istituzione medica ha funzionato come pratica molto
potente, e in pochi anni è passata però sotto silenzio, un occultamento aiutato
dal fatto che si trattava di una pratica trasmessa principalmente in presenza,
a voce. Ma è stata solo questa la ragione del suo finire sotto-traccia – mi
chiedo, ci siamo chieste – insieme alla parola delle donne sui corpi, sulla salute,
sulla sessualità?
A proposito mestruazioni e trasmissione dei saperi
vorrei iniziare leggendo un pezzetto di Livia Geloso (tratto dall’introduzione
all’edizione italiana di Mestruazioni e menopausa di Paula Weideger, 1978, tradotto dal Gruppo Femminista per la Salute
delle Donne) che spiega come l’attenzione all’esperienza mestruale era
diventata centrale per i gruppi che praticavano il self-help.
“Avevamo imparato a pronunciare a voce bassa la parola
mestruazioni, con imbarazzo e vergogna. Ci
impegnammo a pronunciarla apertamente, addirittura a voce alta, perché ci
sentissero tutti/e. Volevamo sentirci orgogliose delle nostre mestruazioni,
farci pace, farle nostre e ci riuscimmo.
Imparammo ad usare il diaframma e le spugne naturali
per contenere il sangue mestruale, insieme agli assorbenti esterni, avendo cura
di cambiarci spesso e di svuotare spesso diaframma e spugne, con orgoglio ed
anche senso del mistero. Guardammo arrivare le mestruazioni con
l'autovisita: la bocca dell'utero che da "lineetta" diventava un
"puntino" e da lì si dilatava piano piano fino ad aprirsi ad
"o" e a lasciare uscire la prima goccia di sangue, magari stimolata
proprio dall'inserimento dello speculum. Cercammo rimedi naturali per i dolori
mestruali: cibi, tisane ed esercizi fisici. Cercammo di rispettare il tempo
della luna nera: il bisogno di riposare, di stare più in contatto con noi
stesse e con i nostri sentimenti, anche con la paura e con la rabbia, e con la
voglia di piangere e di rimpiangere. Avevamo fiducia di poter contribuire ad
aprire una strada che ci soddisfacesse davvero: Tra chi afferma che 'la
donna è la sua biologia' e chi, invece, sottovaluta l'influenza della biologia,
sia nella vita delle donne che in quella degli uomini, c'è sicuramente una
terza strada che passa attraverso l'analisi accurata, storica e metodologica,
di quello che è stato detto finora, e la ricerca, sia personale che collettiva,
diretta a definire in modo nuovo il nostro rapporto con la natura.”
L’osservazione
del ciclo mestruale nei gruppi di self-help diventa misura di molte cose.
Strumento di contraccezione, esperienza di un ritorno a se stesse attraverso
tutti i sensi. Dimensioni, colori, odori, sapori, consistenza. Con l’autovisita
è come se le donne avessero detto: non è vero che quel che non si vede non
esiste, quel che non si vede si sente, e solo se iniziamo a sentirlo possiamo
conoscerlo.
E
oggi, che accade? Quali pratiche vogliamo e perché il corpo
resta un continente costantemente sommerso da altre urgenze come il lavoro, la
precarietà esistenziale, le condizioni materiali di queste esistenze troppo
spesso incorporee?
Diversamente
incarnate, mestruazioni ai tempi di internet
Lavorando
sul concetto di medicalizzazione ho deciso di indagare il modo in cui le donne
vivono l’esperienza mestruale oggi (Dwf, Questo sesso che non è il sesso II). Mi è sembrato
un canale importante attraverso cui intercettare da una parte le contraddizioni
del nostro tempo, dall’altra le fattezze di una cultura medica che ha sommerso
altri modi di sapere e percepire il corpo bollandoli come privi di
autorevolezza, e allo stesso tempo – facendo a pezzi il corpo e trasformandolo
in macchinario complesso – ha precluso qualsiasi possibilità di abitarlo.
Oggi
ci troviamo a vivere esistenze incorporee, portatili, senza fili, multitasking,
che sconfinano ben oltre i limiti della materia che ci compone. La soglia tra
virtuale e reale si assottiglia, passiamo giornate sedute, a specchiarci nei
monitor, impariamo ad osservare nei cristalli liquidi la nostra immagine
diffratta, vogliamo essere sempre accese e dappertutto, costantemente connesse,
fare tutto insieme a tutti, accumulare contatti, appuntamenti, passioni. Per
scambiarci saperi sui corpi andiamo sui forum, ci guardiamo un tutorial su
youtube, oppure ci chiudiamo in bagno con un manuale di istruzioni in mano.
Siamo
“insieme” ma “sole” (Turkle, 2012), e tener conto del corpo diventa un’impresa.
Essere
fatte di carne – proprio nell’epoca della sovraesposizione dei corpi, una
sovraesposizione però del tutto bidimensionale – è quasi fuori moda. Significa
dover accettare il fatto che non possiamo essere costantemente disponibili.
Significa dover stare in relazione ai nostri confini. Un’operazione che ci
sembra dolorosa.
Forse
proprio provare a sentire il corpo nel nostro quotidiano e accorgerci che il
più delle volte non lo ascoltavamo o che lo mettevamo continuamente a tacere, è stata la pratica
che con le altre del mio collettivo (‘Diversamente Occupate’) ci ha portate ad
interrogarci sulla corporeità come un qualcosa di non sconnesso dalle urgenze
“di superficie”. Affinando questo sentire siamo state capaci di concentrarci
sulle condizioni prima ancora di parlare di diritti, rispetto al nostro modo di
stare dentro e fuori dal mercato del lavoro.
Dicevo,
le mestruazioni. Oggi sembra quasi non ci sia lo spazio e il tempo per
lasciarle accadere. Ed eccoci qua. Ancora a nasconderci, ad abbassare la voce
per chiedere un assorbente, a controllare che non ci siano macchie sulla nostra
persona, ad ingoiare pillole analgesiche ed anticoncezionali per non rimandare
appuntamenti e tenere alto l’umore. Quando arrivano le mestruazioni, mettiamo argini
e tappi da tutte le parti. Siamo disposte a tutto, pur di non cedere alla
potenza di quel fiume in piena che, cascasse il mondo, deve restare invisibile
(Un segreto tenuto fin troppo bene si intitola il documentario della
regista slovacca Diana Fabianova, che
purtroppo – ma non mi meraviglia – non è ancora stato tradotto in italiano. Un’inchiesta
su come viene vissuta l’esperienza mestruale nella cultura ‘occidentale’).
È
come se ci fossimo “seccate” (Duden, 2006, p. 27) a proposito
della percezione invalidante che abbiamo dei nostri fluidi corporei. Questi
diventano un impedimento, ci fanno scivolare nell’ingestibile e nell’abietto.
Alcune delle mie interlocutrici hanno espressamente
manifestato di avvertire l’assenza
di momenti per scambiare e apprendere pratiche per ‘autogestirsi’ il
corpo:
“Forse avrebbero
dovuto farci dei corsi sul ciclo mestruale. Dei corsi dettagliati, ma non tanto
sulla meccanica della cosa. Piuttosto su noi stesse, su come capirci e capire i
nostri ritmi e i nostri cambiamenti. Su come comunicare col nostro corpo”.
L’impressione è proprio che la trasmissione dei saperi
sull’esperienza mestruale sia eccessivamente sommaria e frettolosa, a partire
dal dialogo madre-figlia che avviene in corrispondenza della prima
mestruazione. Quasi tutte all’arrivo del menarca, se non prima, hanno ricevuto
indicazioni tecniche dalla madre sulle norme igieniche e sul funzionamento del
proprio apparato riproduttivo (es. la riserva di ovuli a disposizione), anche
con l’ausilio di testi scolastici e scientifici illustrati, ma sempre e
comunque aderendo a quello sguardo esterno, estraneo, fuori di sé, che per
secoli è stato definito “neutro”.
Se la pillola non va giù
Dopo quel veloce scambio di battute, le mestruazioni
diventano una questione personale e ognuna è chiamata a vedersela da sola, ad
arrangiarsi, almeno fino al giorno in cui precipiterà sul lettino ginecologico
implorando aiuto. L’immaginario che ruota attorno alle ‘pillole’,
anticoncezionali o analgesiche, parte anche da qui, da una concezione del corpo
come nucleo a sé stante e performante. La pillola è piccola, veloce, indolore,
e nell’immaginario contribuisce a pieno titolo alla mutilazione dell’esperienza
mestruale riducendone l’intensità e la percezione non solo in termini di fluidi
– nel caso della pillola anticoncezionale è l’intero processo dell’ovulazione a
non avere luogo – ma anche in termini di umori e stati d’animo. Che si parli di
sesso o di performance lavorative: la pillola autorizza un altro a pretendere
il tuo essere sempre a disposizione. In un certo senso, è un’altra versione
dell’addomesticamento: un piccolo marchingegno sociale per tenere a bada la
parte più imprevedibile e selvaggia, la parte ‘fertile’ intesa in senso ampio,
una dimensione che, bisogna ammetterlo, continua a spaventare e infastidire. “Con
la pillola [la donna] interiorizza un comando chimico, che trasforma la sua
intera costituzione, che modifica in modo stabile e a lunga scadenza il suo
stato di salute, il suo comportamento, l’esperienza del proprio vissuto, anche
se le si fa credere che il processo è reversibile”. (Duden, 2006, p. 141)
Da questa prospettiva la pillola è uno strumento di potere,
prima ancora che di auto-controllo, che brilla tra il pollice e l’indice del
ginecologo o del farmacista di turno. Un feticcio che di fatto sostituisce
pratiche di guarigione basate su tempi lunghi, spazi di condivisione e relazione
con altri corpi, rimedi omeopatici e derivati dall’etnomedicina. Soluzioni,
queste ultime, puntualmente etichettate dalla medicina tradizionale come
“autosuggestioni”: una de-legittimazione delle culture che intendono la cura
come qualcosa di più complesso, pluridimensionale e umano, rispetto alla
manutenzione di un macchinario che va incontro ad esaurimento.
Mi viene da dire che la nostra cultura della corporeità è
più concentrata a smascherare gli “effetti placebo” delle pratiche che a
mettere in guardia dagli “effetti collaterali” dei farmaci.
Sembra incredibile, o almeno a me ed altre è sembrato così,
ma di questo si parlava già negli anni Settanta-Ottanta. Le donne del self-help
romano ce lo hanno raccontato e lo raccontano in un libretto di quegli anni
dedicato proprio alla pillola.
Cultura dei corpi, femminismo, progresso. Ho trovato ancora
attuale l’analisi politica che il gruppo per la salute delle donne faceva in
quel libretto:
Un paese tutt’ora pieno di contraddizioni, il nostro. Dove
la maggior parte dei ginecologi e delle ginecologhe al momento della visita non
informano sulle possibilità e non lasciano che sia l'utente a scegliere il
mezzo più adatto per sé (ormonale, di barriera, spirale). Quel che fanno, è
limitarsi a chiedere se la donna che hanno difronte ha rapporti sessuali e a
risposta positiva prescrivere la pillola anticoncezionale presentandola come ‘l'unica
via’ per una contraccezione sicura. Se la donna in questione risponde che non
vuole prendere la pillola ma usare altri mezzi, ad esempio di barriera, come il
profilattico, la risposta è simile: “ma sei matta? di cosa hai paura? siamo nel
2012!” E da lì parte il discorso sulle nuove leggerissime pillole
anticoncezionali che non hanno effetti collaterali, anzi fanno quasi bene
(infatti ormai le somministrano anche per curare squilibri ormonali, acne,
dolori mestruali, ecc.).
Ma la mancanza più grave nel contesto della visita, e in un
paese dove la pillola del giorno dopo non è farmaco da banco e l'obiezione di
coscienza è dilagante, è che chi si ostina a non voler prendere la pillola
anticoncezionale viene liquidata con un "auguri" e una pacca sulla
spalla. A nessuno - a nessuna - viene in mente (come ha raccontato di fare
invece una ginecologa di un consultorio di Roma, durante lo scorso incontro di
novembre 2012) di prescrivere da subito una ricetta per la pillola del giorno
dopo. Così con le Diversamente Occupate, in un post a margine di quella
giornata, consigliavamo di tenere una pillola del giorno dopo nel cassetto per
aggirare l'obiezione di coscienza.
Gli effetti collaterali, la propaganda sessista (quando si
parla di ormoni che possono causare effetti sulla salute o avere conseguenze, è
dato per scontato che siano le donne a doverli assumere quotidianamente e per
una vita intera), il calcolo dell’efficacia e della sicurezza, la manipolazione
delle statistiche, il potere delle case farmaceutiche, gli effetti
dell’assunzione di ormoni sintetici (controindicazioni – trombosi, tumori,
ipertensione), le complicazioni (nausea, ritenzione idrica, calo della libido,
disfunzioni della tiroide, mal di testa, problemi di vista, depressione,
infarti, angiomi, cisti, sterilità, amenorrea…): le donne già sapevano.
Di questo sapere, poco o niente è arrivato fino a noi.
“Se solo avessi saputo del calo della libido avrei dormito
sonni più tranquilli” ha detto una ragazza durante il seminario sulla biologia
che abbiamo organizzato con Livia e Iaph a Roma Tre a marzo. E ci sono state
testimonianze di esperienze anche più gravi, che ci mettono di fronte al fatto
che è arrivato il momento di far circolare le informazioni e riannodare i fili
della trasmissione tra donne, per una scelta che sia autenticamente libera.
Sempre nel seminario a Roma Tre, un’altra ragazza, Giulia, racconta:
“All’età di 20
anni sono andata da una ginecologa per curare una comunissima sindrome da ovaio
policistico e al 28esimo giorno di pillola ho avuto un TIA, un’ischemia
cerebrale per dirla con parole più comuni. La ginecologa sapeva, doveva saperlo
e se, almeno per avvertirmi dei rischi, non le sono bastati i risultati delle
poche analisi prescritte (poche perché se mi avesse fatto fare tutte le analisi
necessarie per stabilire se dare o meno un farmaco quale la pillola, avrebbe
trovato dei fattori alterati, sintomo di una malattia autoimmune)… forse un
padre deceduto a 33 anni per un infarto doveva farle scattare quel campanello
d’allarme che mi indicasse come candidata non proprio ideale per quel tipo di
cura, spingendola per lo meno a farmi fare ulteriori accertamenti. Al Festival
Internazionale del Giornalismo di qualche anno fa e successivamente su un
articolo di un noto settimanale ho ascoltato e letto di donne alle quali era
stata prescritta la stessa pillola anticoncezionale data a me, ma non tutte
purtroppo avevano avuto la “fortuna” di un’ischemia transitoria. Quella che è
stata data a me era pubblicizzata come pillola anticoncezionale di ultima
generazione, una delle più leggere, una sorta di pillola miracolosa dalla quale
erano stati estirpati tutti quegli effetti negativi elencati prima”.
Ciò che non viene detto durante le visite ginecologiche, è proprio
che la pillola anticoncezionale oltre a non proteggere da malattie sessualmente
trasmissibili, si porta dietro tutta una serie di implicazioni che vanno a
gravare sul corpo di una donna, e per quanto ammiccante il suo nome possa
essere e per quanto 'leggero' il suo dosaggio, si tratta comunque di un farmaco
che andremo ad assumere ogni giorno del mese e che andrà ad affievolire la
percezione che abbiamo del nostro corpo e del nostro ciclo mestruale. Inoltre,
non va dimenticato che le pillole anticoncezionali costano e sono prodotte dai
grandi colossi farmaceutici che hanno tutto l'interesse a spingerle sul mercato
come la panacea di tutti i mali.
È di pochi mesi fa (30 gennaio 2013) la notizia della
sospensione in Francia della vendita della pillola anti-acne Diane 35, della
Bayer, perché accresce i rischi di trombosi e di embolia polmonare (lo ha
annunciato l'Agenzia nazionale di sicurezza del farmaco, l’ANSM).
Insomma, forse qualcosa si muove, ma ancora troppo
lentamente e lontano dalla coscienza diffusa.
Vorrei
una coppetta, grazie
A proposito di scelte libere e mestruazioni, ci terrei
a chiudere parlando della coppetta mestruale in silicone che da qualche anno è
possibile utilizzare al posto degli assorbenti. La coppetta va posizionata con
le dita all’interno della vagina. Non assorbe ma raccoglie, non irrita, è
comoda, non si getta via dopo l’uso ma si basa sul riuso - si compra una volta
ogni dieci anni circa (il prezzo varia tra i 30 e i 40 euro). Ne esistono di
diverse taglie (a seconda dell’età e dell’eventuale parto naturale) e marche (mooncup.
ladycup, lunette, divacup, meluna, fleurcup, naturcup…). Nonostante ciò, i
farmacisti ne ignorano l’esistenza e scoprono di averla ordinabile in catalogo
solo se viene richiesta. Più facile è acquistarla su internet, nelle botteghe
bio, o in punti vendita particolarmente sensibili come la libreria Tuba di
Roma, o ancora tramite gruppi d’acquisto locale come ‘La Coppetta’, sempre a
Roma.
La vita di una donna dei paesi industrializzati
corrisponde al consumo di circa 10mila assorbenti e tamponi, apprendo dal
documentario di Fabianova (circa 2.500/3.500 euro di spesa, secondo un mio
calcolo approssimativo). “3 milioni di questi ogni giorno vengono buttati nei
gabinetti e finiscono in mare e negli oceani, il cotone utilizzato per
realizzarli utilizza il 20 per cento dei pesticidi prodotti nel mondo” dice
Fabianova.
Sul sito de La Bottega della Luna, che ha portato la coppetta mestruale in Italia, leggo poi:
Gli assorbenti e i tamponi usa e getta sono tra i rifiuti più difficili da
smaltire perché sono quasi indistruttibili: le bustine contenitrici in
plastica, gli applicatori, le strisce e la copertura adesiva degli assorbenti
hanno infatti un degrado molto lento, calcolato in circa 500 anni. In Italia ci
sono 16.012.000 di donne in età fertile (Istat), che si stima consumino ogni
anno 6.000.500.000 di assorbenti o tamponi e producano circa 120.100.000 chili
all’anno di rifiuti difficili, ovvero 228 chili nel minuto necessario per
leggere questi paragrafi.
Scegliere la coppetta mestruale significa anche non
essere costrette a trasformare il periodo mestruale nell’ennesima occasione di
consumo e produzione di rifiuti, decidere di non ospitare nel tuo corpo la
complicità per questo sistema.
Per coprire l’intero periodo fertile di una donna
bastano massimo tre coppette.
Se è vero che la libertà di una donna passa sempre
attraverso la possibilità di ‘scegliere tra’ e mai per una strada a senso
unico, ci tengo a precisare che la coppetta non è il solo modo esistente per
cambiare. per le affezionate degli assorbenti, esistono assorbenti lavabili in
cotone biologico utilizzabili da soli o in abbinamento alla. Vanno tenuti in
acqua fredda dopo l’uso e poi lavati come il resto della biancheria. le madri
delle nostre madri facevano qualcosa di molto simile.
A proposito di passato, forse vi stupirà, ma la
coppetta mestruale non è un’invenzione del nostro tempo. Aveva già visto luce
negli anni 30 in America. La prima versione disponibile sul mercato sarebbe
opera di Leona Chalmers. Negli stessi anni veniva messo sul mercato il tampone,
o assorbente interno usa e getta, che poi ha avuto la meglio nei decenni
successivi alla guerra cavalcando l’onda del consumismo. Negli anni 80 fu
invece Su Hardy a importare nel Regno Unito un modello di coppetta mestruale in
lattice che aveva conosciuto durante un viaggio in Australia con la figlia. Ma
solo nel 2002 in Inghilterra c’è stata l’immissione sul mercato del prodotto
realizzato in silicone medico, che da noi, in Italia, si sta lentamente
diffondendo.
Come il diaframma, probabilmente per la sua natura non
'usa e getta' poco funzionale alle logiche commerciali, la coppetta è sparita
dal mercato per molti anni. Usarla oggi non è semplicemente un cruccio da
“fissate per l’ecologia”, per capirlo basterà sperimentare come funziona, darsi
la possibilità di trovare un altro modo per viversi il periodo mestruale e il
corpo intero, entrare in contatto diretto con ciò che non si vede (i muscoli
vaginali e del pavimento pelvico) o che spesso non si vuole vedere (il sangue
che fluisce dentro di noi) sarà occasione per lasciar spazio ad un affinamento
della percezione molto utile – a mio avviso – per qualsiasi percorso di
autogestione e autodeterminazione.
Sempre
più spesso mi capita di pensare che diamo così tanto per scontata la nostra
idea di progresso che quando si parla di corpi, sessualità, libertà, donne,
pensiamo subito agli altri paesi del mondo, in cui esportare democrazia,
modelli, protocolli, salute, parità, educazione. Perché diamo per scontato che
noi siamo “già arrivati”. Se pensiamo alla violenza sulle donne, pensiamo
subito alle donne del Sud del mondo. Se pensiamo alle mutilazioni genitali,
pensiamo alle africane.
E invece la strada è ancora lunga, dovremmo interrogarci
sulla qualità della nostra evoluzione. Per esempio, se ogni donna potesse
scegliere davvero, e parlare a un’altra donna del proprio corpo e con tutto il
corpo, sarebbe evolutissimo.
Mi piacerebbe lanciare una campagna nazionale di
contro-informazione sulle pillole e di informazione sull’uso delle coppette
mestruali. Credo ce ne sia bisogno.
Mi piace pensare la rivoluzione come qualcosa che
passa tra le gambe delle donne.
Nessun commento:
Posta un commento