Il corpo delle altre, uno sguardo
antropologico di genere.
Serena
Fiorletta
Dov'è
il corpo? Immediatamente mi domando: il corpo di chi? Il mio, quello delle
altre, le altre chi?
Nel
momento in cui sono entrata a far parte del gruppo "Self – Help,
riparliamone", ho scoperto, insieme alle donne che ne fanno parte,
l'importanza storica che questo "femminismo nel femminismo" aveva
portato avanti attraverso la ri – presa del corpo. La consapevolezza a cui le auto
visite avevano portato, nel passaggio generazionale, è andata in parte persa.
Quando nei nostri incontri ci viene raccontato cosa fossero e come
funzionassero questi gruppi, ma sopratutto come funzionano i nostri corpi, ci è
capitato a volte di restare stupite. E' perché quella conoscenza approfondita
di me e del mio corpo io non ce l'ho... Quel tipo di indagine fisica,
l'esplorazione pratica di sé, tanto da sapere esattamente cosa accade, è oggi
in un certo senso nuovamente delegata alla medicina. Capire che la pillola non
mi piaceva, non mi dava quella libertà che cercavo, mi allontanava da una
percezione di me stessa, è stata una scoperta solitaria. Il tanto odiato ciclo
mestruale con i suoi dolori e odori mi mancava, quella scia di sangue è traccia
di me. Ma non è mai stata traccia di un noi, come è invece accaduto per le
donne del Self – Help. Recuperiamo quindi la storia di questa vicenda che
rischia di sparire e vediamo poi se è possibile farne nutrimento per il
presente. Non è detto che la conclusione sia rifare i gruppi di self -help ma
il corpo delle donne continua ad essere perno anche nei femminismi attuali,
occidentali e non occidentali.
In
questo nostro lavoro di scavo e memoria, nonché di attualizzazione, il corpo è
base quindi del nostro discorso in divenire.
La
domanda dell'incipit è il titolo di un saggio di Mariella Pandolfi[1],
punto di partenza della mia riflessione. L'autrice, rileggendo i vecchi numeri
della rivista Memoria, osserva come il corpo femminile vi appaia ancora oggetto
più che soggetto, fornendo l'ipotesi che forse "in quegli anni la
necessità politica di contestualizzare il corpo fino a costringerlo, a
piegarlo, a coglierne solo gli aspetti coercitivi, la dimensione di non
autonomia", non seppe vedere le modalità attraverso cui il corpo esprimeva
invece forme di reazione alle oppressioni sino a quel momento analizzate.
Eppure Silvia Tozzi, citata nel medesimo articolo, già sottolineava, in un suo
scritto sulla vicenda dei Gruppi per la salute degli anni Settanta[2],
la necessità di "una ricostruzione storica non appiattita da astrazioni,
che dia valore alle scelte dei soggetti, considerando anche gli scarti, le
discontinuità". L'esigenza quindi di un superamento che andasse oltre
l'analisi del corpo femminile, osservando come la dimensione culturale e
storica fossero latitanti in un corpo che allora era costretto tra biologia e
medicina.
Se
come antropologa torno al mio campo di indagine, ovvero la contemporaneità,
oltre il valore storico di quanto le autrici scrivono, mi sembra che qualcosa
di analogo stia accadendo oggi ma con i corpi di donne di altre culture. Noi
parliamo dei nostri corpi, storicamente e culturalmente determinati, e con
consapevolezza ne facciamo oggetto di studio storico o di riflessione attuale.
Essendoci nella nostra quotidianità, ormai da tempo, corpi di donne di altra
provenienza non possiamo dimenticarcene né possiamo non sapere che anch'essi
portano con sé elementi che vanno oltre la mera biologia e che invece sovente
scavalchiamo oggettivizzandoli attraverso il nostro sguardo.
Nella
nostra quotidianità queste donne diventano facilmente le "donne del Terzo
Mondo", "africane", "islamiche", "immigrate"
e sempre sottomesse. Ma davvero sono sempre e solo donne oppresse? Hanno
bisogno delle nostre spiegazioni e delle nostre lotte?
Mentre
scrivo è sulle pagine dei giornali la mobilitazione lanciata dalle Femen,
chiamata “Topless Jihad”, in sostegno di Amina Tyler, la giovane attivista
tunisina che ha postato su facebook una sua foto a torso nudo ricevendo il
biasimo e le minacce di diverse realtà islamiche del suo paese. Sono diverse le
donne musulmane, e non
solo, che hanno manifestato il loro disaccordo con le modalità delle Femen e
sopratutto con un'iniziativa che ritengono non le rappresenti. Oltre ogni
sfumatura ciò che rivendicano è la propria autonomia, ciò che ribadiscono è il
non voler essere liberate da altri o altre. A farlo sono donne proveniente da
diversi paesi, sono donne che indossano il velo come donne a capo scoperto.
Comunque vestite in modo differente dal nostro e sicuramente non nude come le
Femen.
La
facile connessione donna araba – islamica, ovvero velata, ovvero oppressa è
qualcosa con cui abbiamo tutte una certa familiarità. Questi discorsi, premessa
di facili dicotomie, ricostruscono nell'immediato una geografia immaginaria che
stigmatizza l'altro ma anche il noi, attraverso la creazione di due
macroregioni, nonché culture, l'Oriente e l'Occidente. Noi e l'Altro.
Il
velo delle donne islamiche è un esempio di corporeità interessante[3].
Ne hanno parlato negli anni uomini e donne, femministe e non, antropologhe,
giornaliste, studiose. Non ultima l'antropologa Lila Abu-Lughod sul ruolo delle
donne nell'infinita guerra d'occupazione in Afganistan, in un articolo dal
titolo emblematico, Le donne musulmane hanno veramente bisogno di essere
salvate?[4], che ci riporta all'attualità e allo
stereotipo di cui sopra. Non solo qui la donna indossa il burqua, ancora più
"incomprensibile" del velo, ma a liberarla dall'oppressione sarà
l'America di George Bush che
fornisce spiegazioni "culturali" e religiose, senza mai analizzare le
interconnessioni globali di cui gli Usa stessi fanno parte. "Come gli
antropologi sanno bene, gli individui indossano vestiti appropriati alla
comunità sociale in cui vivono e sono condizionati da modelli socialmente
condivisi, da credenze religiose e ideali morali, a meno che non trasgrediscano
deliberatamente o non siano in condizione di permettersi un vestiario
adeguato"[5]. Rimanendo
nel solco della storia, il velo è usato da diverse comunità, all'interno di
stati e nazioni differenti, ognuno con una suo percorso all'interno della quale
il velo ha assunto diversi significati. La storia del velo cambia nel tempo e
in Iran, dove è stato segno d'emancipazione e contestazione, è poi diventato un
obbligo da non poter trasgredire; oggi in Turchia nei luoghi pubblici è invece
vietato; per le donne islamiche in occidente si dota di altri complessi
significati a seconda della provenienza di chi lo indossa e a seconda del paese
di accoglienza che esercita certamente una sua influenza. Le donne per prime
hanno dato, e danno oggi, diversi significati al loro modo di vestirsi e
all'uso simbolico del velo. Si deve fare attenzione a ridurre le diverse
situazioni e l'atteggiamento di milioni di musulmane a un singolo capo di
vestiario. "Forse è tempo di abbandonare l'ossessione occidentale per il
velo e concentrarsi su qualche problema serio per il quale le femministe ed
altri dovrebbero invece essere coinvolti. In definitiva, l'importante problema
politico ed etico che il burqa solleva è come rapportarsi all'"altro"
culturale"[6].
Lughod
ricorda, come il discorso della liberazione delle donne oppresse, di cui il
velo è uno dei simboli, è stato usato dai diversi colonialismi per giustificare
le occupazioni imperialiste. Gayatri Chakravorty Spivak nel suo noto lavoro,
riassume il paradosso del colonialismo, ovvero "uomini bianchi che salvano
donne di colore da uomini di colore"[7].
Non possiamo affrontare qui cosa sia oggi il neocolonialismo o cosa sia stato
il colonialismo. Ma quest'ultimo rimane prima di tutto un discorso dotato
di linguaggio proprio, che vede
nella relazione tra opposizioni la sua base, e principalmente tra un sé ed un
“altro” da sé; in questo caso l’opposizione è tra donna occidentale e donna non
occidentale. Categorie interpretative storicamente e culturalmente prodotte da
noi, che formano un sistema complesso di rappresentazioni sui colonizzati, i
colonizzatori e i loro rapporti, da cui scaturiscono le idee di superiorità
dell’occidente nei confronti del resto del mondo dominato o da conquistare.
Colonialismo quindi come discorso, che informa di sé determinate azioni e che
delinea, di volta in volta, l'identità degli altri/altre.
Uno
degli elementi che caraterizzano le donne non occidentali è ciò che Chandra
Talpade Moanthy chiama "differenza del Terzo Mondo"[8],
ovvero "qualcosa di immobile e astorico che sembra opprimire la maggior
parte, se non tutte, le donne di questi paesi"[9].
Oggi
abbiamo tutte le possibilità e occasioni per ascoltare il discorso delle altre,
evitando l'immagine di una donna media del Terzo Mondo (o altre definizioni
analoghe), che "conduce un'esistenza essenzialmente monca a causa della
sua appartenenza al genere femminile (vale a dire, sessualmente non libera) e
del suo essere del "Terzo Mondo" (cioè ignorante, povera, non
istruita, legata alla tradizione, costretta alla vita domestica, dedita alla
famiglia, vittimizzata ecc.)"[10].
Di
queste facili definizioni dell'altra, ritenute colonialiste e patriarcali, sono
ritenute responsabili anche coloro che vengono definite, dalle autrici che si
collocano nel filone degli studi post coloniali, le "femministe
occidentali". Rivolgendosi con questa definizione a quelle femministe che
non sembrano prendere in considerazione l'aspetto culturale, storico e la
capacità di autodeterminazione delle donne di altre provenienze.
La
ricerca femminista, di cui facciamo parte, non può esimersi dallo sforzo di
rivedere il proprio ruolo storico e attuale per inserirsi all'interno di un
quadro politico globale, sopratutto se si coinvolge in lotte che riguardano
direttamente donne di altre culture. Il relativismo culturale può essere visto
come il saper prendere in considerazione il punto di vista dell'altra, il suo
corpo e la sua voce, da una prospettiva che non sia solo etnocentrica. Con la
consapevolezza che il nostro discorso è culturalmente determinato, esercitarsi
all'osservazione degli altri/e, almeno attraverso cio che Ernesto De Martino
chiamava etnocentrismo critico.
Un'
unione con le altre donne non può essere basata solo sul genere, deve trovare
spazio in una pratica e in un'analisi storica in cui tutte abbiano la parola e
il gesto. Quando parliamo di donne africane, donne velate o donne immigrate
(contenitori al cui interno può esservi compreso di tutto), usando questi
concetti come categorie di analisi, neghiamo specificità storica alla posizione
che queste donne occupano realmente all'interno delle loro vite. Vengono viste
come gruppi omogenei e oppressi, sotratti a qualunque capacità di cambiamento e
interpretazione che non venga dato da noi. Di conseguenza così, oltre
l'incomprensione culturale, le altre restano sempre al di fuori della storia.
Come Simone De Beauvoir ci ricorda, "donne non si nasce ma si
diventa", attraverso una
complessa intersezione tra classe, cultura, religione, provenienza etc.
"Tali comparazioni riduttive, che prescindono dal contesto culturale,
hanno come risultato la colonizzazione delle specificità dell'esistenza
quotidiana e delle complessità degli interessi politici che le donne di classi
sociali e culture differenti rappresentano e mobilitano"[11].
Inoltre negando le specificità storiche e culturali, le contraddizioni e gli
aspetti sovversivi, del corpo e non solo, vengono esclusi. Sottraendo ad altre
realtà femminili la capacità di elaborazione di strategie politiche
antagoniste, ci togliamo la
possibilità di lotte e conoscenze condivise. Questo permanente evoluzionsimo
culturale, per cui il progresso è prerogativa dell'occidente e delle donne
occidentali, cancella ogni altra forma di esperienza, di sapere e di
conseguenza non vede le forme di resistenza. Noi che ci siamo sentite
colonizzate dal patriarcato, non colonizziamo le altre e restiamo vigili per
fare in modo che ciò non avvenga.
Ri
– troviamo nel nostro presente "luoghi di autonomia sorretti da itinerari
tutti interni e femminili; scoprendo tutte le forze dinamiche che possono
sprigionarsi quando una parte degli attori sociali, non restando bloccata nella
centralità istituzionale può muoversi con maggiori spinte dinamiche proprio
perché costretta nei margini, nelle pieghe, alle frontiere di
un'esistenza"[12].
Vi sono forze e luoghi di autonomia alle periferie della nostra società attuale
da prendere in considerazione quando parliamo di donne, femminismo e corpi. Ascoltiamo
le loro definizioni, contrapposizioni e la loro voglia di non essere liberate
da altre ma in caso con le altre.
Invece
di cercare definizioni chiediamoci quali novità hanno portato le donne migranti
con i loro corpi e con le loro diverse percezioni del corpo. Come ricorda nel
suo intervento Livia Geloso, "il self-help voleva offrire alle donne
un'esperienza che le facesse sentire sullo stesso piano, accomunate dalla
somiglianza dei loro corpi e delle sensazioni ad essi legate. Allo stesso tempo,
voleva valorizzare le diversità, e opporsi all'omologazione".
Allora
mi chiedo cosa accade quando scopro che il flusso liberatorio delle
mestruazioni è per qualcun'altra un liquido che scende goccia a goccia, come
nel caso delle donne provenienti da luoghi in cui si praticano modificazioni
dei genitali, e scopro che qui, se siamo pronte, inizia il dialogo...
[2] Silvia Tozzi, Molecolare, creativa, materiale:la
vicenda dei gruppi per la salute, «Memoria»,
19-20, 1987
[3] Quello che noi chiamiamo velarsi presenta
nelle culture interessate notevoli differenze, nonché nomi differenti per ogni
"velatura". Per noi occidentali finiscono tutti sotto il nome di velo
e comunque con una connotazione negativa, quantomeno di arretratezza.
[5] Idem
[6] Idem
[7] Spivak, G. C., Can the Subaltern
Speak?, in Nelson, C. -
Grosserberg, L., Marxism and The Interpretation of Culture, London, Macmillan, pp. 271-313, 1988
[8] Chandra Talpade Moanthy, Femminismo senza frontiere.
Teorie, differenze, conflitti, Ombre
Corte, 2012
[9] Idem, pag.32
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