Silvia
Tozzi
Si può dire che
il femminismo –con le sue complessità di esperienze e di soggetti- ha subito
sconfitte sul piano politico. Ma non si può negare la straordinaria longevità e
persistenza di certi sedimenti culturali, a cominciare dal rovesciamento delle
categorie maschili sul vissuto corporeo.
Nei nostri
incontri sul self-help degli anni ’70 riemerge un lascito che ancora è sentito
perfino tra le più giovani.
In un convegno organizzato
dall’Associazione METIS a Milano nel 1998 (Corpi
soggetto. Pratiche e saperi di donne per la salute, Franco Angeli, 2000, pp.37-38).
Luciana Percovich così descriveva il senso di scoperta provato nel gruppo per una Medicina delle
Donne nei primi anni ’70:
“Quando…cominciammo
a parlare con lo stile di allora, cioè partendo da noi stesse, delle varie
questioni che i nostri giovani corpi ci ponevano con urgenza –un aborto mal
digerito, un inizio di gravidanza minacciato da un’epidemia di rosolia, disagi
incontrati con la propria sessualità, e lo facevamo con tutta l’ingenuità,
l’apprensione e l’entusiasmo della consapevolezza di sfidare secoli di divieti
e tabù- una delle prime cose che balzò ben presto con tragica evidenza ai nostri
occhi fu lo stupore nel constatare come tutte le funzioni connesse ai nostri
normali cicli fisiologici ricadessero nella sfera della malattia, e quindi
sotto il controllo della medicina”. Quello stupore generò gesti di ribellione
collettiva. Collegato con questo, “il secondo elemento che ben presto
acquisimmo con sconsolante lucidità fu la constatazione di come fosse
impossibile delimitare il discorso che
partiva dai nostri corpi all’ambito della salute/medicina, perché
riscoprivamo…quel nesso negato-coperto-ridicolizzato con l’avvento della
scienza occidentale tra mente-corpo emozioni e desideri”, Aggiungeva: “E sarà
utile ricordare che allora non eravamo in molti né in molte a cercare di
rimettere insieme ciò che era stato separato, qualche secolo prima, con la
violenza unita di Chiesa e nascente corporazione medica”.
Dopo le esperienze degli anni
Settanta e Ottanta, oggi si può dire che il corpo è stato per il movimento
delle donne “il luogo originario di formazione dell’identità sessuale, della
visibilità e della costruzione culturale dei generi….Sul corpo le donne hanno
elaborato in questi decenni un sapere sessuato nuovo e complesso, capace di
rompere steccati cognitivi e disciplinari, di disarticolare contenuti e
categorie portanti. La storia come disciplina ha avuto in questo percorso
un ruolo tutt’altro che secondario, a partire dai primi studi sulla maternità e
sul parto alla fine degli anni Settanta” (Corpi e Storia, Società Italiana delle Storiche, Viella 2002, p.X.).
In effetti “la storia del corpo, in tutte le
sue manifestazioni, è storia culturale…”. L’imperfezione del corpo e della
fisiologia femminile rispetto al modello maschile è un canone che si perpetua
nella scienza fino dall’antichità (ibid. p.XVII), trovando applicazione attraverso
l’esercizio del potere normativo della medicina e della chiesa. Le pratiche con cui le donne hanno
contribuito, nei secoli, alle terapie ed alla cura dei corpi sono state ignorate,
condannate, o lasciate
nell’anonimato, assorbite e stravolte nelle modalità
dell’esercizio maschile.
Il
movimento per la salute ha portato alla ribalta l’esigenza di autonomia,
e il rifiuto della vigilanza punitiva nel controllo del corpo. Con l’autodeterminazione
si sono aperte nuove strade alla libertà femminile. Ma con esiti potenzialmente
paradossali, perchè i poteri normativi sono diventati col tempo via via più
raffinati e indiretti. Dominique Memmi,
in Corpi e Storia cit.(p.229
ss) ci parla delle “nuove forme di controllo pubblico dei corpi”, che
presuppongono l’interiorizzazione dell’autocontrollo del proprio corpo da parte
di soggetti padroni di sé. In questo contesto “l’approccio faucaultiano
‘vecchia maniera’ (le ‘discipline’) si rivela dunque inadeguato per comprendere
l’evoluzione successiva al decennio 1965-1975”. La conquista del femminismo,
data dall’accrescimento del potere sociale delle donne sulla riproduzione, sembra accompagnarsi ad una continua e crescente produzione di
procedure di normalizzazione e sorveglianza.
Barbara Duden e il corpo della donna come
luogo pubblico
“La tecnica
moderna ha un forte effetto sull’esperienza concreta del corpo”: da quando è
uscito in Germania –nel 1991- il suo libro intitolato Il corpo della donna come luogo pubblico –pubblicato in Italia da
Bollati Boringhieri nel 1994- Barbara
Duden ha continuato ad elaborare questo concetto, frutto della sua ricerca e
delle acquisizioni di altre storiche, come Carolyn Merchant. Fino alla “morte
della natura” con cui si è aperta l’era
del progresso, eventi fisiologici come la gravidanza hanno mantenuto
straordinarie analogie con gli eventi naturali presenti nella vita del cosmo
(natura vissuta come gravida di esistenza,
natura quale matrix vitale,
pp.120-121).
Nuove rappresentazioni, nate dal
sodalizio di teologi e medici nel secolo XVIII, danno origine a nuove realtà.
D’ora in poi “la domanda da porsi non è che cosa faccia la tecnica, bensì che
cosa dica una nuova tecnica, quali forme concettuali, stili di percezione e
condizioni psichiche trasmetta con la propria esistenza e il proprio impiego”
(p.87). Natura e corpo si avviano ad essere costruzioni mediate dalla tecnica,
il grembo materno diventa zona di operazioni,
nella percezione delle donne stesse.
I
geni in testa e il feto nel grembo, del 2002, esce da Bollati Boringhieri
nel 2006, e non si contano negli anni gli
interventi in cui la Duden discute
in pubblico le sue tesi sulla storia del
corpo. La rappresentazione in chiave scientifica del corpo femminile influenza
anche l’immagine di sé e l’esperienza vissuta delle donne. Di fronte
all’incalzante progresso tecnico, lei prova l’ urgenza di descrivere lo
spartiacque che si è aperto alla soglia del nuovo millennio.
Conia il termine
decorporeizzazione: “Solo parlando
della sessualità odierna attraverso il ricordo di cose, parole e sentimenti che
avevano valore un tempo ho acquisito il distacco necessario per comprendere
storicamente la decorporeizzazione che
ha avuto luogo negli anni Novanta”.
Un esempio: l’affidamento crescente
alla strumentazione che permette la visione del feto nell’utero, con
l’inevitabile effetto di oggettivazione, induce nella donna incinta una
autopercezione prevalentemente ottica, mentre
la sensibilità degli organi percettivi si affievolisce. Nel vissuto
corporeo si sperimenta la contraddizione tra l’esperienza viva, sensibile, e la
dipendenza da verifiche operative del
proprio stato tramite accertamenti, misurazioni, direttive. E’ la medicina
stessa a ingabbiare la donna paziente, ormai partecipe dal sistema pervasivo a cui è affidata la
tutela della sua salute. Un sistema che trasforma la medicina, da arte di curare a “sottosezione del laboratorio di biologia
molecolare” (p.184), mentre
l’affermazione dell’ io si traduce in
espressione del genoma.
Tentare di ritrovare preziosi frammenti del
passato non è sterile romanticismo. Duden considera superficiali le rappresentazioni che
vedono il corpo solo come costruzione socio-culturale, concetto astratto o
metafora, e non come vissuto nella sua
organicità materica. E proprio per la storicità dell’esperienza corporea, cerca
di “porre la conoscenza storica al servizio delle donne incinte di oggi, per
incoraggiarle a non farsi soggiogare dal discorso sociale sulla gravidanza”
(pp.12-13). Si può reagire al “monopolio del pensiero tecnologico, che insidia
il primato assoluto dell’esperienza e della percezione come criteri di
valutazione dello stato di salute”? Duden propone l’esercizio della scepsi, la presa di distanza, e non
un semplicistico ritorno al passato (p.152).
Nel capitolo sull’assistenza al
parto in ambito tecnologico, descrive la posizione dell’ostetrica, che vive su
di sé “la attuale lacerazione,
storicamente inedita, della condizione femminile”. (pp.94-95). Operatrice
competente, e al tempo stesso erede –se lo vuole- dell’antica levatrice. “Due atteggiamenti che non sono
reciprocamente riducibili…bensì coesistono come due mondi contigui: da una
parte la funzionaria, dall’altra, accanto ad essa, la presenza sollecita e
continua. Questo una donna può farlo solo quando, in una tale posizione
dissociata, resta fedele all’antica saggezza secondo cui l’ “arte della
levatrice” coincide con il “parto di una donna”, e non con una “produzione di
vita” tecnicamente controllata; la
gravidanza è la condizione di una donna, non il programma tecnicamente
sorvegliato e controllato che istruisce la donna a percepirsi, per nove mesi,
come “ambiente in cui si svolge un
processo i cui stadi sono gli emblemi della cultura collettiva: dall’uovo
fecondato, all’impianto di un organismo pluricellulare nel tessuto uterino,
fino all’embrione e al feto-il tutto nello stile di pensiero della genetica”.
L’ostetrica si trova a percorrere il crinale
tra due forme di realtà, tra il sistema tecnico e l’esserci per assistere un parto. La qualità dell’aiuto al parto è
una forma di pazienza intuitiva, empatica, sapiente.
Quello che Duden vuole incoraggiare
“è un atteggiamento di ricerca di spazi ancora possibili, per le donne,
all’interno di un mondo tecnicamente normato” (p.124).
Alla ricerca di spazi per la
demedicalizzazione della gravidanza e del parto
I lavori di
Franca Pizzini –prima di approdare all’ambito universitario- nascevano da
esperienze di movimento, in particolare nel gruppo per una Medicina delle Donne
di Milano, e si inserivano tra importanti ricerche sulla medicalizzazione del
corpo femminile. e il ruolo delle levatrici. Ricordo, per l’Italia, gli scritti
di Claudia Pancino sulla storia dell’assistenza al parto dalle mammane alle
levatrici (per esempio, un suo saggio su “Società e Storia” n. 13,1981: La comare levatrice. Crisi di un mestiere
nel XVIII secolo). La loro funzione apparteneva, in antico, ad un campo di
intervento molto vasto della pratica medica -basta pensare a Metrodora (VI
secolo), a Trotula (sec.XI)- ed è stata pienamente normata dalle gerarchie maschili solo in epoca moderna. Della stessa
Pizzini uscì un video sulla storia del
parto realizzato con l’ostetrica
M.Giacomini per la Provincia di Milano, dal titolo “Da mani femminili a mani maschili”.
Al convegno di METIS del 1998 Pizzini giunse a
chiedersi se il movimento, dopo aver messo al centro della riflessione sull’identità
soggettiva il corpo femminile, la salute, la maternità, potesse continuare su
questa strada, in una situazione in cui era cambiata la percezione del corpo
grazie alle nuove tecnologie, con
prospettive che potrebbero portarci a considerare la maternità un
fenomeno arcaico: “Il corpo femminile è ancora necessario alla riproduzione
oppure stiamo passando ad un’era in cui la maternità fisica non esisterà più
nei paesi ricchi, ma solo in quelli poveri?” (METIS cit, p.43).
Nello stesso convegno anche Silvia
Vegetti Finzi parlò della “impersonale inesorabilità del progresso
tecnico-scientifico”, della possibilità di una gestazione extracorporea, e
della unilateralità della risposta medica
che “traduce il desiderio in bisogno”. (METIS cit. p.49). Ma impostando il discorso sulla procreazione (termine da preferire a riproduzione) come creatività che si
esprime “grazie a un procedere congiunto del corpo e della mente”, indicava la
via d’uscita nel dare la parola al corpo femminile: “L’importante è che il
corpo femminile diventi un corpo che parla di sé, senza passare attraverso i
codici e le ingiunzioni maschili. Un corpo che riesca a riprendersi le proprie
immagini e trovare le parole per dirsi” (p.66).
Ed è, appunto, il tentativo di dare
la parola alle esperienze corporee che ha
contrassegnato gli anni Settanta, con il lavoro nei consultori autogestiti e le
mobilitazioni femministe. Gli spazi di libertà individuale e collettiva
conquistati riguardavano questioni cruciali di quel periodo –contraccezione,
aborto, creazione di strutture per la salute delle donne come i consultori. La
riflessione di alcuni gruppi e collettivi –tra cui il Centro Simonetta Tosi- è proseguita negli anni Ottanta con la ricerca di spazi di libertà
individuale e collettiva nella gestione del parto.
Ricordo un’occasione d’incontro in
cui hanno potuto esprimersi esperienze e ricerche maturate in quegli anni: il
convegno internazionale organizzato a Milano nel gennaio 1985 –con il sostegno
della Provincia e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: Culture del parto. Luoghi, Pratiche, Figure.
Fu una iniziativa importante, perché nata in un contesto interdisciplinare –tra
sociologia,antropologia, storia sociale- e anche da una riflessione critica
all’interno della medicina stessa, per un obiettivo: “conoscere, interrogare e
mettere in discussione il sapere medico come tradizionale egemone in materia”. Si
parlò di cultura dei reparti ospedalieri, di inflazione dell’ostetricia, di
prospettive di cambiamento motivate da nuove esperienze di parto –dal parto in
casa, alle case per il parto, alle
innovazioni in ambiente ospedaliero. In un resoconto uscito su “Il Manifesto”
(29/1985), Date a lei quel che è di lei,
Ida Faré così scriveva a
conclusione del convegno: “Si scioglie la falsa alternativa tra ritorno alla
natura o sviluppo della cultura che è tecnologia, solo se si riporta
l’esperienza ‘culturale’ del parto al soggetto, la donna. Un oggetto che
riflette, subisce, gestisce un insieme di rapporti sociali, culturali e di
potere. Nasce qui, in questo punto del tempo, in bilico tra la ‘freccia’ della tecnologia e la ‘tartaruga’
dell’essenza dell’esperienza umana, la domanda del ritorno alla donna del sapere sulla nascita”. E un ginecologo
disponibile all’autocritica –come il primario dell’ospedale di Monza- aveva ammesso di aver molto da imparare
dall’ostetrica, che “sa” di più avendo fiducia nel corpo della donna.
Queste riflessioni erano maturate
anche nella categoria delle ostetriche, tra cui era cresciuta l’insofferenza per
una posizione di subalternità vissuta come mortificante. Se ne trovano esplicite
manifestazioni nella rivista della
Federazione delle Ostetriche, Lucina. Per
esempio sul n.9 del 1984, Marta
Campiotti (“L’ostetrica e la donna”) si esprimeva
a favore della progettazione di “case di maternità”, dopo aver tracciato un
profilo storico dell’ostetricia come arte:
arte tradizionalmente propria di una esperta della salute, che intreccia con
la donna un rapporto di fiducia, mentre la scienza ostetrica come tecnica è improntata al ruolo del medico come esperto della malattia, in un rapporto che induce ansia e dipendenza
nella donna.
Ricerca di spazi nel rapporto con le
istituzioni
La crescita del
movimento verde e l’interesse per le medicine
“naturali” hanno avuto molti punti di contatto con la nuova cultura
della nascita e del parto..
Al convegno Madre Provetta organizzato a Bologna nel 1988 per iniziativa di
alcune donne del movimento verde, due ostetriche - Sandra Forni e Franca
Marcomin- sottoposero a critica serrata il modello culturale della medicalizzazione, proponendo di
contrastarlo, anche sul piano legislativo, con l’autorevolezza delle esperienze
maturate dalle operatrici in alcune città (Firenze, Milano, Roma, Verona,
Torino…) e da ginecologi quali Leboyer, Odent e altri/e. Marcomin: “Noi non rifiutiamo in toto la
tecnologia, ma la poniamo al servizio delle donne e non viceversa”. E Sandra Forni:”In questi anni abbiamo
osservato come il modello culturale consideri la nascita un evento medico a
rischio e come il messaggio dei
mass-media esalti l’utilità dell’interferenza tecnologica quale unica garanzia
di benessere e salute; ignorando però completamente le implicazioni
dell’uso esagerato e scorretto di intervento nella nascita e sul bambino”.
Nello stesso convegno fu presentata
ai giornalisti una bozza di legge quadro elaborata dal Coordinamento Nazionale per la “Legge
sulla tutela della partoriente e del bambino ospedalizzato”. Uno degli scopi
della proposta era quello di promuovere l’umanizzazione del parto e il graduale
superamento della ospedalizzazione generalizzata, a favore del parto a
domicilio e delle case di maternità.
A Roma, nel gennaio 1988 il Centro
Simonetta Tosi costituì insieme ad alcuni gruppi di professioniste (ostetriche,
ginecologhe, psicologhe, pediatre) il Coordinamento
Regionale Lazio per una Nuova Coscienza del Parto e della Nascita. Accanto
al nostro Centro ne facevano parte: il Melograno, il Gruppo Artemide, il Gruppo
Ostetriche per la Nascita Attiva, il Centro Maternità di Via Clodia
(Scassellati), Francesca Ginobbi, il Centro Studi Yoga (Barbara Woehler), la
Lega per l’Allattamento Materno (Laura Antinucci). Queste le premesse:
“Dalla nostra
esperienza è emersa l’inadeguatezza dei servizi sanitari, legata, a nostro
avviso, alla scarsa disponibilità degli operatori a colmare quel vuoto
conoscitivo che impedisce la realizzazione di una nuova cultura del parto....Il
Coordinamento ha lavorato sia nella direzione di uno scambio reciproco di
conoscenze e di esperienze, sia per la promozione di una nuova cultura del
parto nelle strutture pubbliche…”. Infatti nel 1988 in Coordinamento aveva
iniziato un’attività di contatto con le strutture regionali e gli assessorati
competenti presentando due progetti di lavoro, uno sulla formazione del
personale sanitario dei reparti di ostetricia e neonatologia, l’altro
sull’assistenza domiciliare al parto ed al puerperio, riformulando inoltre la
proposta di attrezzare una casa di maternità secondo il progetto originario
della cooperativa Do.R.I.S., in sintonia con il progetto di legge nazionale del
Gruppo parlamentare verde.
Il Coordinamento, costituito in Associazione presso la sede dell’Artemide, ottenne un
finanziamento per il suo “progetto pilota
di assistenza domiciliare al puerperio”, destinato alla formazione degli
operatori, ed a questo si dedicò con impegno fino alla conclusione nel 1995.
Tuttavia, nel marzo 1993 il Centro Simonetta Tosi aveva deciso di rinunciare
alla propria collaborazione al progetto per divergenze sorte, specificamente,
nei riguardi della valutazione di un
“campione” rappresentativo della popolazione femminile a cui era potenzialmente
rivolto il servizio. Purtroppo, dal nostro punto di vista questo lavoro –pur costato a tutte notevoli
energie - non era riuscito ad esprimere in modo adeguato il prezioso patrimonio
culturale sviluppato negli anni dalle donne, e poté dirsi terminato senza
lasciare un segno tangibile nella sanità pubblica. Indubbiamente si erano anche manifestate
differenze e difficoltà di collaborazione tra i gruppi, costretti al confronto con istituzioni che si
rivelavano refrattarie al dialogo.
Vale la pena di ricordare che nel
1985 l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva compendiato i risultati di
ricerche ed esperienza sul nascere e il partorire in raccomandazioni, che erano
state da stimolo in Italia per
sperimentazioni di giovani ostetriche e per la creazione di un coordinamento
nazionale per il parto a domicilio. Soltanto nel 1988 fu approvato alla Camera
un ordine del giorno che impegnava il Governo all’applicazione delle
raccomandazioni dell’OMS. Il documento era firmato dalla deputata dei Verdi
Laura Cima e da parlamentari delle altre
forze politiche (Bassi Montanari, Donati, Grosso, Procacci, Annaboldi, Artioli,
Diaz, Faccio, Gramaglia, Martini, Sanna, Piro, Volponi). E proprio per sollecitare
le istituzioni dormienti a rispondere –nel momento in cui la legge finanziaria
stava imponendo tagli pesanti alla sanità- si tenne poi presso l’Istituto
Superiore di Sanità il convegno del 16 ottobre 1990 su “Parto e nascita:Leggi regionali e legge nazionale” L’ organizzarono
il Coordinamento Regionale Lazio per una nuova coscienza del parto e della
nascita e il Gruppo Parlamentare Verde, che aveva formulato una proposta di
legge quadro in materia (Camera dei Deputati, proposta n.3016 presentata il 14
giugno 1988, “Diritti della partoriente e
del bambino ospedalizzato”, a firma di Cima, Bassi Montanari, Cecchetto
Coco, Faccio, Guidetti Serra).
Al convegno parteciparono
rappresentanti del Parlamento e, per il Governo, Maria Pia Garavaglia
sottosegretario alla Sanità, in una sala piena soprattutto di ostetriche. Sia
Michele Grandolfo dell’I.S.S. che il Dr.Wagner dell’OMS richiamarono le
potenzialità delle indagini epidemiologiche per la comparazione tra parti a
domicilio, case di maternità e ospedali, ai fini della conoscenza degli aspetti
fisiologici e di quelli patologici, dei rischi iatrogeni, e per riportare
nell’ambito della fisiologia un evento ricchissimo di risonanze affettive. Beatris
Smulders parlò della posizione ormai collaudata della categoria delle
ostetriche e del riconoscimento della loro cultura in Olanda, Per Sandra Forni, ostetrica
nell’ospedale di Zevio (VR), l’esperienza
del parto e della nascita era da considerare non meno importante della
protezione dal rischio iatrogen connesso alla istituzionalizzazione: la
soluzione delle case di maternità presupponeva l’esistenza di programmi per
l’assistenza nelle gravidanze a basso rischio e per il puerperio. Ma la
principale garanzia, per Sandra Forni
come per Marta Campiotti, restava la
presenza di ostetriche e personale che avessero alle spalle percorsi formativi
adeguati, e autonomia nell’assecondare la fisiologia della gravidanza e del
parto. Per Marina Sbisà, semiologa dell’Università di Trieste, le proposte
formulate in sede legislativa implicavano tre ordini di obiettivi: 1)il ritorno
alla donna di attività e capacità espropriate dalla medicalizzazione; 2)la
promozione del parto fisiologico e delle modalità che lo facilitano; 3)la
ristrutturazione di un settore della sanità, il cosiddetto materno-infantile,
dal punto di vista della formazione medica ed ostetrica e negli aspetti
organizzativi.
La proposta Cima non giunse
dall’approvazione. D’altronde una nuova cultura non nasce per decreto, e il
lavoro di chi è motivato a diffonderla si svolge su tanti piani diversi, in
contesti che possono essere disponibili o refrattari al dialogo. Se obiettivo
comune è la demedicalizzazione, non sembra auspicabile perseguire un’unica
strada. Purché non sia la strada della
burocratizzazione, perché la codificazione è nemica della pluralità delle
soluzioni.
E oggi dove andiamo?
La burocratizzazione
implicita nei protocolli che mirano alla eliminazione del rischio induce
situazioni già descritte da Barbara Duden, con l’inevitabile effetto di
oggettivazione del corpo della donna, che da protagonista si trasforma in
esecutrice obbediente di comandi interiorizzati?
Esiste ancora una memoria di antichi
vissuti, che permetta l’esercizio della scepsi, la presa di distanza, il
distacco critico proposti da Duden?
People are having success with self development program (method) - https://bit.ly/2woPXil
RispondiEliminaGreatt reading your post
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