Angela Petrotta, psicologa
Nel preparare questo intervento ho cercato di ricostruire il
percorso che ci ha portato ad organizzare il convegno “chi ha paura della
cicogna?” e a continuare ad occuparci di quelle tematiche anche negli anni
successivi.
Non è stato
facile mettere ordine nel turbine di ricordi ed eventi di una fase storica così
ricca e stimolante, a livello sia dell’impegno politico che anche della mia
vita personale. Le date nella mia memoria erano incerte e ho dovuto ricostruire
il percorso storico seguito cercando anche tra l’abbondante materiale (libri,
documenti…) che ho conservato.
Negli anni ’70 all’interno del
movimento femminista grande attenzione veniva data ai temi legati al rifiuto
del ruolo femminile tradizionale di moglie e madre e alla cosiddetta “liberazione
sessuale”.
A questo proposito l’attenzione era
concentrata sulla contraccezione e sulla lotta per la legalizzazione
dell’aborto, visti come presupposto alla liberazione dal vincolo biologico che
storicamente aveva sempre confinato le donne in quei ruoli
Anche all’interno del gruppo femminista
per la salute della della donna (self help), che concentrava il suo impegno nel
ridare alle donne la competenza sulla propria salute, l’attenzione era data
soprattutto al ciclo mestruale, alla contraccezione, alla sessualità.
Nel convegno
organizzato dal gruppo di self help nel 1977, per la prima volta tra i vari
gruppi di approfondimento delle diverse tematiche legate alla salute, si
affacciò timidamente il “gruppo maternità”.
Fino a quel momento l’argomento
maternità era quasi un tabù e per quelle di noi che avevano deciso di avere un
bambino in quel periodo, si poneva il problema di inventarsi un nuovo modo di
vivere la maternità, alternativo agli schemi tradizionali.
Quindi, quando decisi di avere un bambino,
sentii forte l’esigenza di un confronto con le altre donne su questi aspetti,
così poco affrontati fino ad allora.
Naturalmente,
come avveniva a quei tempi, affrontammo l’argomento con gli strumenti che
conoscevamo, ci riunimmo cioè in gruppi di “autocoscienza” in gravidanza e dopo
la nascita dei bambini, per cercare insieme modalità nuove di assumere i ruoli
genitoriali e di avviare un cambiamento culturale.
Ci rendemmo
conto che nel movimento femminista avevamo tralasciato il tema della maternità,
relegandolo alla sfera del privato, come fosse qualcosa che poteva allontanarci
dalle lotte per il cambiamento ed emarginarci dalla partecipazione attiva.
Ricordo che
alle manifestazioni dell’8 marzo in quegli anni (dal ’75 al ’77) portavamo i
nostri cartelli “riprendiamoci la maternità” per porre questo tema all’attenzione
di tutto il movimento e affermare che ci potevano essere modalità alternative di
vivere la maternità.
Ma oltre ai
problemi di tipo culturale e di ruolo, un grosso trauma fu per molte di noi
l’impatto con l’assistenza al parto e perinatale in generale.
L’esperienza del parto era stata per
molte di noi traumatica e violenta, ci eravamo sentite costrette a subire la
prevaricazione del potere medico con i suoi rituali spesso inutili, se non
sadici.
Avevamo
rilevato come anche i corsi di preparazione al parto, che molte di noi avevano
seguito, non ci avevano preparato né informato adeguatamente su quello che ci
aspettava, lasciandoci indifese riguardo alle prassi mediche.
Ci rendemmo conto che nella
gravidanza, parto e puerperio tutte le problematiche del rapporto
medico-paziente (e donna paziente in particolare) si presentavano in maniera
amplificata.
Il parto veniva considerato come una
malattia da ospedalizzare e curare, in cui la partoriente non aveva alcuna
competenza e doveva delegare la nascita del suo bambino agli esperti.
Decidemmo che non volevamo essere più
espropriate di un momento così importante, né viverlo più in maniera passiva e
subire prassi mediche che tra l’altro comportavano rischi iatrogeni, come la
posizione supina, l’anestesia, l’uso dell’ossitocina per indurre il parto,
l’episiotomia, l’abuso del cesareo…
Cominciammo ad approfondire queste
tematiche, cercando di avere più competenze per poter acquistare maggior potere
nel difenderci.
Nella
cooperativa DORIS, nata dal gruppo di self help, formammo un gruppo nascita,
subito dopo il convegno del ’77. Eravamo interessate ad estendere l’approccio
del self help a questo aspetto complesso della salute delle donne, quindi anche
in questo campo promuovere l’autogestione della salute, per affermare il
diritto per la donna, la coppia e il bambino di essere soggetti attivi della
nascita.
Il gruppo
era eterogeneo e l’interesse era sia personale che professionale. Molte di noi
erano ginecologhe, psicologhe, pediatre, ostetriche ancora in fase di
specializzazione.
Prendemmo contatti con le esperienze
che stavano avvenendo in quegli anni in Italia e all’estero, in Francia (soprattutto
l’esperienza di Michel Odent nella clinica di Pithivieres), negli Stati Uniti
(casa di maternità) e in provincia di Piacenza (Braibanti).
Nel 1975 era uscito il libro di
Leboyer “Per una nascita senza violenza”, che denunciava le prassi ospedaliere
come “violente” e proponeva modalità alternative di accogliere il neonato.
Il libro ebbe molto successo e fu un
buon punto di partenza verso un cambiamento, ma il problema era che tutta
l’attenzione era concentrata sul bambino, mentre non veniva preso in
considerazione il punto di vista della partoriente. Come sempre la donna era
vista in funzione del figlio, non come soggetto.
Braibanti, meno conosciuto di Leboyer, aveva
scritto nel ’74 il libro “Nascita senza violenza”, nel quale riportava il suo
impegno presso l’ospedale di Monticelli D’Ongina, in provincia di Piacenza, per
sottrarre l’evento nascita al dominio esclusivo della medicina e restituirlo ai
suoi veri protagonisti: mamma, bambino, padre.
Scoprimmo
quindi finalmente esperienze che dimostravano la possibilità di partorire in
modo più naturale e rispettoso, uscendo dal condizionamento del parto come
malattia da ospedalizzare e curare.
Tali esperienze dimostravano come
fosse possibile partorire al di fuori del contesto ospedaliero, cioè a casa o
nelle Case di maternità, dove la donna poteva avere accanto il partner e/o le
persone che desiderava, sentendosi meno espropriata e più a suo agio e potendo
dopo il parto avere il bambino vicino, senza doversene separare, come avveniva
nei nidi ospedalieri.
Nel 1979
iniziammo a seguire gravidanze e parti. Tenevamo i corsi di preparazione al
parto utilizzando lo yoga e la bioenergetica, rifiutando i metodi allora più
praticati (RAT, vari tipi di respirazione…) che secondo noi non aiutavano la
donna a rendersi consapevole del suo corpo e ad essere protagonista del suo
parto senza delegare agli “esperti” la nascita del suo bambino.
Le ginecologhe e le ostetriche del
nostro gruppo accompagnavano le donne in ospedale per il parto o seguivano i parti
in casa con l’aiuto delle ostetriche condotte ex Omni e garantendo anche l’assistenza
domiciliare al puerperio.
Quindi da
questo processo personale e professionale nacque nel 1983 il Convegno “Chi ha
paura della cicogna”.
Sentivamo l’esigenza di uscire
all’esterno per far conoscere le esperienze che si stavano facendo in Italia e
all’estero per una nascita più naturale e meno medicalizzata.
Il nostro intento era anche di tipo
politico: cercare di far conoscere queste tematiche per arrivare a modificare
le prassi ospedaliere dell’assistenza perinatale.
Va detto che
trovammo una certa sensibilità da parte di alcuni politici donne, all’interno
della Provincia di Roma, che finanziarono e sostennero la nostra iniziativa.
Ci trovammo
quindi nel clima austero della sala conciliare della Provincia di Roma, con i
suoi banchi di legno scuro ad ascoltare persone che venivano da tutto il mondo
con le loro esperienze fuori dagli schemi tradizionali.
In
particolare molta impressione fece l’intervento di Sheila Kitzinger,
antropologa americana che si era interessata alla nascita in diverse culture,
quando mimò, sdraiandosi sul bancone davanti al presidente della provincia, il
parto di un orango.
La Kitzinger concluse il suo
intervento mostrando un filmato nel quale donne in diverse parti del mondo
partorivano in posizione accovacciata.
Importanti
per noi furono anche gli interventi che riguardavano le Case di Maternità negli
Sati Uniti.
Infatti il nostro desiderio era
proprio di realizzare una “Casa di maternità” a Roma e nel convegno presentammo
un nostro progetto a questo scopo. La Casa di Maternità per noi rappresentava
il luogo in cui mettere in pratica la nuova maturazione politica e culturale
sui temi della nascita.
Dal momento che consideravamo la
gravidanza e il parto come eventi fisiologici, con importanti aspetti
psicologici e sociali, sentivamo l’esigenza di far sì che avvenissero in un
luogo alternativo all’ospedale, contesto di cura della patologia.
Il convegno
ebbe una grande partecipazione da tutta Italia e dall’estero, ed ebbe il merito
di coagulare intorno a queste tematiche tante realtà che stavano nascendo in
quel periodo.
Da questo movimento di opinione e dal
sostegno di alcuni politici donne fu approvata nel 1985 la legge della Regione
Lazio intitolata “Indirizzi per la riorganizzazione dei presidi sanitari al
fine di tutelare la dimensione psico-affettiva del parto”.
Questa legge dava indicazioni per
promuovere la dimensione umana della nascita, dava la possibilità ai padri di
essere presenti al parto e raccomandava la chiusura dei nidi ospedalieri a
favore del cosiddetto “rooming in”, per far sì che il neonato stesse vicino
alla mamma, favorendo così anche l’allattamento al seno.
Considerammo questa legge un passo
avanti, anche se all’atto pratico era molto difficile far sì che venisse
rispettata pienamente nelle strutture ospedaliere, che ponevano diverse
resistenze.
In quegli anni, ’84-’85, si sviluppò
un grande fermento sia culturale che politico su questi temi e per cercare di
modificare le modalità dell’assistenza perinatale.
A Milano fu organizzato il convegno
“le culture del parto” (1985) in cui molti operatori portarono le loro
esperienze.
Anche a Bruxelles si svolse un
convegno analogo in cui entrammo in contatto con interessanti realtà europee,
come quella di Londra in cui Janet Balaska aveva coniato il termine “nascita
attiva”.
Per sensibilizzare sempre più
operatori che lavoravano in questo campo e rispondendo alle loro richieste
organizzammo negli anni successivi al convegno diversi corsi di formazione e
aggiornamento tenuti da Braibanti, Kitzinger, Balaska…
Anche il nostro modo di seguire la
nascita si arricchì. I corsi di preparazione non erano più circoscritti al
“parto”, ma cercavamo di affrontare in maniera più completa l’evento nascita:
nascita di un bambino, ma anche di due genitori.
Oltre al lavoro sul corpo, tenevamo
incontri dedicati alle coppie per aiutarle nell’assunzione della funzione
genitoriale.
A quel punto la nostra equipe era
molto consistente: ostetriche, ginecologhe, pediatre, psicologhe e nel confronto
tra noi cercavamo di fornire un’assistenza e un sostegno completo agli utenti.
Molta importanza davamo al puerperio
e al dopo nascita. Insieme alla pediatra tenevamo incontri sulle più comuni
difficoltà che i neo genitori incontravano, visite pediatriche collettive,
baby-massaggio.
Ci rendemmo conto che il contesto che
circonda l’evento parto ha una forte influenza anche per l’immediato post
partum e per il puerperio.
Tanto più le donne si sentivano
espropriate del proprio parto, tanto più si sentivano completamente abbandonate
a se stesse dopo la dimissione dall’ospedale.
Era difficile per loro passare da una
situazione di passività in cui delegare tutto agli esperti, ad una situazione
in cui dovevano farsi carico in prima persona del bambino.
Tutto il nostro lavoro tendeva ad
aiutare la coppia ad entrare in relazione con il nuovo nato, rendendo i neo
genitori più consapevoli delle sue innate competenze a vivere.
Il prendersi cura del neonato è
facilitato se alla madre e al bambino è dato modo di conoscersi già dalle prime
ore di vita senza interferenze, né separazioni.
Negli anni ‘90 nacque “il
Coordinamento del Lazio per una nuova cultura del parto e della nascita” nel
quale si raccoglievano i vari gruppi che operavano a Roma.
Con il Coordinamento realizzammo un
progetto pilota di assistenza domiciliare al puerperio per il Comune di Roma. Questa
fu un’esperienza molto importante, che purtroppo restò “progetto-pilota” senza
potersi applicare in modo stabile. Sappiamo quanto ancora oggi sarebbe utile
poterlo realizzare.
Come operatori quegli anni furono per
noi un periodo molto ricco, in cui scoprimmo di poter svolgere un ruolo nuovo.
Non raccoglievamo più la delega, in
quanto esperte e depositarie del nostro sapere professionale, ma ci offrivamo
come aiuto in un evento in cui i principali attori erano la donne e il suo
bambino.
Proprio dal riconoscimento dei nostri
limiti, molto forte era l’esigenza di lavorare in equipe, in un continuo
confronto, senza trincerarci dietro formule scientifiche, che il più delle
volte hanno una funzione di esorcismo rispetto al timore e al coinvolgimento
che ogni nascita non può non suscitare.
A distanza di tanti anni purtroppo,
il rammarico è che solo in parte queste acquisizioni sono state realizzate e
ancora oggi molto resta da fare per rendere gli operatori più sensibili e le
donne più consapevoli.
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